Benvenuti nel mondo di Spirito Sportivo

Spirito Sportivo è più di una squadra: è una comunità che corre insieme, si allena con passione e cresce con determinazione. Dalla pista allo store, portiamo avanti uno stile di vita fatto di energia, fatica e sorrisi condivisi. Allenati. Gareggia. Vivi lo sport.

Nella Sezione Musica del sito troverai le recensioni di tutti i dischi presenti nel nostro club così come nella parte dedicata ai libri, quindi tieni d'occhio le nostre pagine che vengono aggiornate ogni giorno con tutte le novità! 

 

La corsa del lupo nordico

Era una mattina di pioggia fine, di quelle che trasformano l’asfalto in specchi e i sentieri in fango vivo. Lui, il corridore, aveva legato ai piedi un paio di Karhu Ikoni ATR WR, nuove di zecca, e già al primo passo sentiva che non erano scarpe comuni, ma compagne di viaggio.

Pesavano il giusto: 305 grammi per il modello maschile, 250 per il femminile. Non erano piume, non erano macigni. Erano equilibrio, con quel drop da 8 mm che teneva la falcata naturale, fluida, senza forzature.

La pioggia batteva, ma il piede restava asciutto: la costruzione WR, water-resistant, era come un mantello invisibile che respingeva l’umidità, senza soffocare il respiro del tessuto. L’IdealKnit mesh, rinforzata da un bordo fangoso a 360°, sembrava fatta apposta per attraversare radici bagnate e pozzanghere senza paura.

Sotto, la suola si aggrappava al terreno con i suoi tacchetti da 2,5 mm. Ogni passo era trazione, ogni appoggio sicurezza. Eppure, sulle superfici lisce, il corridore notò un difetto: la scarpa “succhiava” l’asfalto umido, emettendo un suono strano, quasi fastidioso. Non era un tradimento, più un vizio di carattere. Come un amico che parla troppo, ma ti salva sempre la pelle.

Dentro, il cuore era l’AeroFoam: morbido, reattivo, capace di assorbire il peso e restituire energia. E al centro del passo, la Fulcrum unit guidava la corsa in avanti, impedendo frenate brusche, spingendo con naturalezza, come se un flusso invisibile accompagnasse il piede.

Non era una scarpa nata per la città, lo si capiva subito. Lì, tra pietre che a volte si incastravano nella scanalatura centrale, rivelava le sue piccole debolezze. Ma appena la strada lasciava spazio ai campi, ai boschi, alle colline umide di nebbia, la Ikoni ATR WR diventava ciò che era: un lupo nordico, libero e selvaggio, pronto a correre senza catene.

Il corridore rallentò, ascoltando il rumore dei suoi passi nel fango. Si sentiva guidato, protetto, invincibile. Ogni scarpa ha un’anima, e quella, capì, era nata per l’avventura.

 

Quattro anni in giro per il mondo con le mie Karhu Fusion 2.0

Ci sono scarpe che si consumano in fretta, destinate a rimanere solo un ricordo in fondo all’armadio. E poi ci sono quelle che diventano compagne di viaggio, fedeli come un diario che ti segue ovunque. Le mie Karhu Fusion 2.0 appartengono a questa seconda categoria: quattro anni insieme, quattro anni di chilometri e di storie.

Le comprai quasi per caso a Helsinki, patria del marchio finlandese. In una piccola boutique trovai questo modello dallo stile retrò, essenziale e al tempo stesso solido. Non immaginavo che quelle sneakers avrebbero segnato i miei passi in mezzo mondo.

Il primo vero test arrivò a New York. Le Fusion 2.0 hanno corso con me lungo Central Park, hanno camminato tra le strade di Manhattan e hanno resistito alle notti infinite di Brooklyn. La loro comodità era una certezza, come avere ai piedi un pezzo di casa in mezzo al caos di una metropoli che non dorme mai.

Dopo l’America, arrivò il Marocco. Le sneakers si tinsero di polvere tra i vicoli di Marrakech e scricchiolarono sulla sabbia del deserto di Merzouga. Sotto il sole rovente, mi resi conto che non erano solo scarpe da città: avevano lo spirito dell’avventura cucito addosso.

Poi venne il tempo del Sud America. In Perù mi accompagnarono tra i gradini antichi che portano a Machu Picchu, tra sentieri bagnati di pioggia e altitudini che mozzano il fiato. In Cile affrontarono la Patagonia, con il suo vento tagliente e paesaggi che sembrano scolpiti dalla natura per mettere alla prova chiunque li attraversi. Ogni graffio sulla tomaia era una cicatrice di viaggio, un segno inciso tanto sulla pelle delle scarpe quanto sulla mia.

E infine, l’Asia. Dalle luci al neon di Tokyo ai templi dorati di Bangkok, fino alle spiagge di Bali. Sempre lì, ai miei piedi, le Fusion 2.0 non hanno mai ceduto. Ogni sera, spesso, le pulivo con cura, come si fa con un compagno fidato che non ti ha mai tradito.

Oggi, dopo quattro anni, le guardo e so che non sono più semplici sneakers: sono un archivio di ricordi. Ogni macchia di suola racconta una città, ogni graffio una strada, ogni piega una storia. Forse un giorno finiranno in una scatola, consumate oltre misura, ma resteranno sempre le scarpe che mi hanno portato in giro per il mondo.

Le Karhu Fusion 2.0 sono state il filo conduttore dei miei viaggi: tra continenti e culture diverse, mi hanno ricordato che la vera forza non è solo nell’arrivare lontano, ma nel camminare passo dopo passo con lo spirito sportivo di chi non si ferma mai.

In Metropoli con un tocco di Foresta

Il sole al tramonto incendia le facciate di cemento della città, proiettando ombre lunghe su marciapiedi e vetrine. Lui si ferma un attimo, inclina il capo e aggiusta il suo cappello Karhu: un’icona sobria, semplice ma carica di carattere.

Il tessuto è morbido e resistente, concepito per durare nel tempo: ogni cucitura racconta la storia di chi desidera muoversi con stile e praticità. Sulla fronte campeggia il logo Karhu, discreto e familiare, un richiamo alla tradizione finlandese ma scolpito per la metropoli moderna.

Il cappello accompagna il suo sguardo mentre attraversa un vicolo, si ferma in una piazza acciottolata. È un accessorio unisex, pensato per adattarsi a chiunque voglia completare il proprio look con un'aggiunta semplice ma distintiva.

Le varie versioni—dal Classic Logo Cap in tonalità naturali come Lily White / Brittany Blue o Irish Cream / India Ink, fino a versioni più audaci come Karhu Logo Cap in Dark Forest / Navy—raccontano la libertà di scegliere chi sei, senza forzature.

Il cappello non è solo un accessorio: è compagno di passeggiate nei parchi, di pause in caffetterie urbane, di fughe notturne sotto lampioni gialli. Offre protezione dalla luce spesso troppo forte, ma soprattutto regala personalità; un piccolo sigillo che dice: ”Sono qui, con stile contenuto e autentico.”

Si volta, sentendo il leggero rassicurante contatto del tessuto e il cappello saldo sopra i suoi occhi—un gesto semplice, ma significativo. In quel momento capisce che, come un simbolo silenzioso, questo cappello narra di radici e di avventura urbana, di chi guarda al passato senza restarne prigioniero.

E domani, quando il sole tornerà a spegnersi all’orizzonte, lo ricompenserà di quel tocco di autenticità che solo un buon cappello sa dare.

Scott Walker: l’ombra che illumina la musica

Ci sono artisti che non hanno mai cercato il centro del palco, eppure continuano a proiettare un’ombra lunga, capace di influenzare intere generazioni. Scott Walker è uno di questi. La sua parabola è unica: partito come idolo pop con i Walker Brothers negli anni ’60, con canzoni che scalavano le classifiche inglesi, si è progressivamente spogliato della patina commerciale per inseguire un percorso artistico radicale, coraggioso, spesso incomprensibile per il grande pubblico, ma imprescindibile per chiunque abbia provato a dare un senso nuovo alla musica.

I suoi primi dischi solisti – Scott, Scott 2, Scott 3 e Scott 4 – sono un universo in cui la voce baritonale incontra orchestrazioni sontuose e un gusto letterario fuori dal comune. Jacques Brel non sarebbe mai entrato con tanta forza nella cultura popolare se non ci fosse stato Walker a tradurne il veleno poetico in un inglese cupo e magnetico. Scott 4, in particolare, resta uno degli album più belli e sottovalutati della storia: un’opera densa di lirismo, che già faceva intravedere il passo successivo, più visionario e oscuro.

Dagli anni ’80 in poi, Walker smette di cercare compromessi. Con dischi come Climate of Hunter, Tilt o The Drift abbatte le strutture tradizionali della canzone, trasformando la musica in un’esperienza fisica, quasi teatrale. Suoni metallici, percussioni che sembrano colpi di scure, atmosfere da incubo che convivono con momenti di pura, straniante bellezza. Non più intrattenimento, ma arte pura, dura, spigolosa.

Il suo influsso è ovunque: nei Depeche Mode più cupi, nei Radiohead di Kid A, nei National, in David Bowie che più volte lo ha citato come maestro. Persino artisti apparentemente lontani – dal post-punk all’avant-pop – riconoscono in Walker una fonte inesauribile di coraggio creativo.

Scott Walker ci ha lasciato nel 2019, ma la sua eredità continua a vibrare sotterranea. Non è mai stato una rockstar nel senso classico: non cercava l’applauso, ma lo smarrimento. È stato la dimostrazione vivente che la musica può essere rifugio, specchio, abisso.

Personalmente, ogni volta che torno ad ascoltare Farmer in the City mi sembra di entrare in una stanza senza finestre, illuminata solo dalla sua voce: un luogo che mette a disagio, ma da cui non vorresti più uscire. Forse questo era il suo vero dono: obbligarci a guardare nell’ombra, per scoprire che lì dentro, a volte, la luce è più intensa.

The Murder Capital – Blindness

Ci sono dischi che arrivano come un pugno in pieno viso, e Blindness è uno di quelli. Al terzo lavoro in studio, i The Murder Capital scelgono di spogliarsi di ogni filtro e di mostrarsi crudi, nervosi, ma anche fragili. È un ritorno al cuore pulsante del post-punk, ma attraversato da una tensione emotiva che non lascia tregua.

Sin dalla traccia d’apertura, “Moonshot”, si capisce la direzione: chitarre taglienti, batteria martellante, voce che sembra sputare verità senza preoccuparsi di addolcirle. È l’urgenza del presente, raccontata senza giri di parole. Poi arrivano brani come “The Fall” o “Death of a Giant”, che sanno alternare violenza sonora e momenti di sospensione quasi lirica: un’altalena continua tra caos e quiete, rabbia e delicatezza.

Quello che colpisce di più è la scrittura di James McGovern: testi che graffiano, che affrontano la perdita di senso delle parole in “Words Lost Meaning”, o che scompongono i concetti di patria e appartenenza in “Love of Country”, con uno sguardo tanto personale quanto politico. C’è la rabbia, certo, ma anche un senso di vulnerabilità che rende queste canzoni più umane, più vicine.

Musicalmente l’album è un continuo scontro: la sezione ritmica ti trascina avanti senza pietà, le chitarre costruiscono muri sonori che si aprono all’improvviso in squarci malinconici. È come se i The Murder Capital avessero voluto raccontare la condizione di vivere oggi: un equilibrio instabile tra energia vitale e disincanto.

Non è un disco perfetto. Alcune tracce, soprattutto quelle più robuste e meno intime, rischiano di sembrare meno incisive. Ma nel complesso Blindness funziona proprio perché non è levigato: è irregolare, sporco, vivo. Un album che preferisce mostrare le ferite piuttosto che nasconderle.

Il verdetto

Blindness non è solo un ascolto, è un’esperienza emotiva. È musica che pulsa, che fa male e che consola allo stesso tempo. I The Murder Capital dimostrano di avere ancora tanto da dire, e di volerlo dire con la stessa urgenza dei loro inizi.

Un disco che non lascia indifferenti: o lo ami, o lo temi. Ma di certo, non puoi ignorarlo.

Belìn, che paddock – Recensione personale

Ci sono libri che si leggono come romanzi, e altri che sembrano chiacchierate al bar con un amico che ne ha viste di tutti i colori. Belìn, che paddock appartiene senza dubbio a questa seconda categoria. Carlo Pernat non scrive una biografia “ufficiale”, non si mette in posa: apre il cassetto dei ricordi, lascia uscire aneddoti, storie folli, momenti indimenticabili, e lo fa con quella schiettezza che lo ha sempre contraddistinto.

Le pagine hanno l’odore di benzina e di caffè alle cinque del mattino nei box. C’è Valentino Rossi agli inizi, con il suo carisma naturale; c’è Biaggi, con la sua determinazione feroce; c’è Capirossi, e soprattutto c’è Marco Simoncelli, ricordato con parole che ti arrivano dritte al cuore, perché non sono solo il racconto di un pilota, ma di un ragazzo che Pernat ha amato come fosse di famiglia. In quei passaggi, il tono scanzonato lascia spazio a una delicatezza sincera, ed è lì che il libro sorprende di più.

Ma non è solo motociclismo. Pernat racconta anche la Dakar, il ciclismo, persino la Juventus, e non mancano episodi surreali: una serata con Mick Jagger, incontri con De André, avventure che sembrano uscite da un film. Il bello è che non sai mai dove finisca la realtà e dove inizi la leggenda — e in fondo non importa, perché la voce con cui narra è talmente viva che ti ritrovi a credergli comunque.

Quello che colpisce è lo stile: diretto, ironico, pieno di dialettalismi e iperboli. Pernat non ha paura di esagerare, né di mostrarsi per quello che è: un uomo che ha sempre vissuto al massimo, tra corse, passioni e inevitabili eccessi. E proprio questa sincerità rende il libro unico. Non è mai neutro, mai piatto: è rumoroso, guascone, a tratti scomposto, proprio come il paddock che racconta.

Alla fine della lettura, ti resta addosso una sensazione precisa: quella di essere stato dentro il vero cuore delle corse, non quello patinato delle telecamere, ma quello umano, fatto di risate sguaiate, notti insonni e lacrime improvvise. Belìn, che paddock non è un manuale né una cronaca, è un atto di amore e di libertà verso un mondo che può affascinare e travolgere.

Se ami i motori, qui troverai una miniera di aneddoti. Se non li ami, scoprirai comunque un personaggio bigger than life che sa raccontare con ironia e malinconia un pezzo di cultura sportiva e di vita italiana. Io l’ho letto così: come una corsa sfrenata, senza pause ai box, con Carlo Pernat alla guida che ti urla all’orecchio: “Tieniti forte, belìn, perché non si frena mai.”

Coenzima Q10: energia e protezione per chi corre

Il Coenzima Q10 (CoQ10) è una sostanza naturale presente nei nostri mitocondri, le centrali energetiche delle cellule. Gioca un doppio ruolo fondamentale:

  • favorisce la produzione di ATP, cioè l’energia che alimenta i muscoli durante la corsa,

  • agisce da antiossidante, proteggendo i tessuti dallo stress ossidativo che aumenta con gli allenamenti intensi.

Benefici per i runner

  • Più energia e resistenza: alcuni studi mostrano un miglioramento del VO₂max e una riduzione della fatica nelle corse di lunga durata.

  • Recupero migliore: grazie all’azione antiossidante e anti-infiammatoria, aiuta i muscoli a rigenerarsi più velocemente.

  • Supporto cardiovascolare: mantiene efficiente il cuore, motore principale dell’endurance.

Come assumerlo

Il dosaggio consigliato varia tra 100 e 200 mg al giorno, preferibilmente in forma di ubiquinolo e insieme a un pasto che contenga grassi, per migliorarne l’assorbimento. È ben tollerato e sicuro.

Abbinamenti utili

Il CoQ10 lavora bene in sinergia con:

  • vitamine C ed E, per potenziare l’effetto antiossidante,

  • omega-3, a supporto del cuore,

  • creatina, per ottimizzare i processi energetici nei lavori misti (aerobici e anaerobici).

👉 In sintesi: il CoQ10 non è una bacchetta magica, ma un alleato prezioso per chi corre e vuole sostenere la propria energia, proteggere i muscoli e migliorare il recupero.

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Domande frequenti

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“Sono rimasto impressionato dalla professionalità degli allenatori di Spirito Sportivo. Hanno saputo motivarmi e guidarmi verso la forma fisica che desideravo. Consiglio vivamente i loro servizi.”

Giovanni Doria

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ASD Spirito Sportivo è una squadra di running e fitness con sede a Vetralla (VT), specializzato nell'aiutare atleti di tutti i livelli a raggiungere le proprie ambizioni. Con un team di allenatori professionisti e un approccio personalizzato, ci impegniamo a fornire un servizio di alta qualità e supporto costante ai nostri clienti oltre che ad offrire loro prodotti di primissima scelta sia per quanto riguarda le scarpe che abbigliamento tecnico.